Un libro di Gianbattista Uberti
A cura di Loredana De Pace
SCHEDA TECNICA
Autopubblicazione
Dimensioni Rilegato, 31x21cm
Numero di pagine 60
Carta interna Tintoretto gesso 140gr
Copertina Tintoretto gesso opaca 300gr
Stampa a colori
Gianbattista Uberti è un autore che fotografa la bellezza della luce sul volto femminile. È parco nell’utilizzo di qualunque eccesso nell’esecuzione delle sue fotografie, specie se si tratta di scatti in bianconero nei quali disvela maggiormente il suo lirismo. La luce che entra dalle quinte della scena e i forti contrasti sono una costante nella sua indagine sull’armonia delle forme.
A un certo punto del suo percorso autoriale incontra Agata, che preferisce farsi chiamare Solitude, e le mappe corporee autoinflitte nel corso degli anni adolescenziali, incise sulla pelle con l’ausilio di lamette o provocate da bruciature di sigaretta.
Non un solo lembo di pelle, a parte il volto, è rimasto indenne dai tagli, nulla di originario della trama cutanea ha evitato la “metamorfosi”.
Documentare l’autolesionismo di Solitude, e per estensione portare alla luce questa problematica, è il moto volitivo che ha fatto superare a Gianbattista un naturale disagio di fronte a un corpo così diversamente segnato, una nudità stratificata su cui l’autore si è interrogato.
Con questo libro, che intitola Solitude, l’autore vuole consegnare a tutti le sue riflessioni.
Per parlare della storia di Solitude, Gianbattista Uberti si servito di un doppio canale linguistico: il fuori fuoco, utilizzato fino all’estremo dell’incomprensibilità del soggetto, che gli ha consentito di traslare nell’immagine il concetto di indefinitezza come equivalente della irriconoscibilità dell’epidermide causata dalla pratica autolesionistica di Solitude.
Nel secondo “codice” adoperato, l’autore ha mantenuto una corretta messa a fuoco, soffermandosi sui dettagli del corpo, enucleando alcune zone e i rispettivi segni tracciati dalla ragazza con le lamette (“sempre nuove”, specifica lei). Su questi segni, in alcuni casi, ne sono stati sovrapposti altri, quelli di tatuaggi realizzati in seguito ai tagli, come a indicare un ulteriore strato che si aggiunge, copre, nasconde, trasforma.
La stratigrafia risultante è probabilmente un altro modo che Solutude ha adoperato per tracciare i livelli simbolici ai quali aspirava e che l’hanno spinta a scarnificare il senso estetico imposto dalla società
come specifica lei stessa nelle risposte dell’intervista (che è possibile ascoltare integralmente scansionando il QR Code pubblicato all’inizio del libro).
Chissà se Agata abbia mai pensato di tornare indietro, se si sia mai pentita...
Il corpo è pieno di tracce che creano percorsi – visivi e metaforici – ricercati dalla ragazza in una forma di autolesionismo, che è una problematica sociale molto complessa, spesso taciuta, chiaramente spiegata dalla dott.ssa Ilaria Riviera nel suo contributo scientifico pubblicato a pagina 52.
Quali che siano le motivazioni che inducono un ragazzo o una ragazza a tali gesti da cui non si può tornare indietro
questo libro vuole dare voce a un’esigenza adolescenziale espressa malamente con l’inflizione di dolore al proprio corpo. Il libro Solitude vuole smuovere l’opinione pubblica perché sia messa a parte di questa pratica e delle implicazioni psicologiche e sociali a essa connesse. Guardare le cicatrici di Solitude, infatti, significa accettare l’evidenza di un problema socio-familiare che va necessariamente affrontato e le immagini di Gianbattista Uberti vogliono farsi veicolo visivo per riflettere sull’argomento.
L’autore ha voluto documentare il corpo-gabbia dal quale Solitude ha cercato di scappare, da cui facendo sgorgare il suo stesso sangue ha provato a far uscire qualcosa di fisico e qualcosa di mentale, come sottolinea lei stessa in una risposta alle domande poste da Gianbattista.
Che gli opposti si attraggano è cosa arcinota. Ma quali sono gli opposti di questa vicenda? Un dentro che si sente scomodo, inappropriato, e un fuori che si trasfigura per provare a dare pace all’interiorità disorientata. Nel mezzo, il nascondimento misto al bisogno narcisistico di manifestare le tracce autoinflitte al proprio corpo; il mistero irrazionale del senso di inadeguatezza espiato dalle pericolose lesioni corporee e la velleità tutta estetica di decorare il corpo – sopra le cicatrici – con tatuaggi, che rendono ancora più visibili i tagli autoinflitti perché i disegni di inchiostro si adeguano alla trama nuova della pelle.
Un autore che fotografa una situazione complessa come questa esce dal recinto sicuramente più comodo della bellezza femminile e sposta l’attenzione su una problematica molto comune nei giovani di cui, però, nessuno parla. Invece, con questi bianconeri e con le domande poste a Solitude,
Gianbattista Uberti fa risuonare l’urlo autolesionistico di Solitude affinché attraverso le sue fotografie sia finalmente ascoltato.
Nelle immagini di Gianbattista le pose della ragazza sono assunte liberamente di fronte alla fotocamera; la tensione degli arti, le repentine variazioni di postura e di espressioni facciali fanno apparire lo sguardo della ragazza ora angelico e un momento dopo, all’opposto, diabolico.
Come se i tagli non fossero sufficienti, durante le sessioni di posa la giovane emula gesti drammatici ma anche iracondi rivolti verso se stessa. Si tira i capelli, si contorce, assume posture che rappresentano il suo disagio. Non manca tuttavia la fermezza dello sguardo rivolto alla fotocamera, sguardo che è tanto crudo quanto difficile da sostenere.
Per suffragare la dinamica narrativa, al centro del libro si è scelto di collocare una serie di scatti in cui Solitude urla a squarciagola. In questa coppia di pagine, gli scatti sfocati sono affiancati a quelli perfettamente a fuoco perché fosse definitivamente manifesto il movimento interiore – tra razionalità e inconscio – con cui la giovane autolesionista tenta di divincolarsi da quella che lei stessa definisce “una gabbia”.
In alcuni scatti emerge anche l’aspetto vezzoso della ragazza che assume pose in cui ostenta con vanità le sue forme, ma pure il senso estetico ed egocentrico della sua “ricerca”. La femminilità e persino la tenerezza però sono un campanello d’allarme di un’ingenuità che, sotto le cicatrici, può essere ancora recuperata, incoraggiata.
Verso la fine di questo libro Agata guarda Solitude: due immagini affiancate in cui due donne – la ragazza e il suo alter ego ferito – si scrutano mentre tutti noi le staremo osservando, per provare a riflettere sulla condizione di malessere, sul profondo conflitto interiore che sfocia nell’autolesionismo.
Chiude il volume, una fotografia perfettamente a fuoco, quasi scultorea, sicuramente inquietante, in cui ogni movimento si congela nel busto fermo e frontale di Solitude, segnato da tutte le sue mappe.
Agata ha smesso di tagliarsi, almeno così sostiene. Nel 2020 viaggia alla volta della Norvegia, dove soggiorna al momento in cui scriviamo. Sceglie di spostarsi in un Paese nordico probabilmente sperando di poter condurre lì un’esistenza più consona al suo animo, e di trovare – finalmente – una dimensione serena in cui non avere l’esigenza di autoinfliggersi dolore per riuscire a sentire l’impulso della vita scorrere nelle vene.
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