Mostra fotografica di Michele Di Donato
A cura di Loredana De Pace
(Mostra presentata al festival Colorno Photo Life 2021)
“Ho voluto guardare in faccia l’abisso, ben consapevole dei rischi di questa operazione. E credo di esserne uscito fuori bene, anche se sento che qualche strascico è rimasto in me e sono sicuro che tornerà, per diventare forse un altro progetto fotografico”.
Dipendere da qualcuno o da qualcosa sottende l’essere privati della propria libertà. Un atteggiamento ignobile che priva del diritto naturale all’autonomia di scelta, proprio dell’essere umano. Ma se sottrarre quella libertà, se perdere l’autosufficienza nella gestione del corpo, del tempo, delle emozioni fosse un atto volontario verso sé stessi allora la faccenda diventerebbe spiazzante, rasentando il paradosso.
Anche se appare inconcepibile, molto spesso infatti è l’essere umano a rivolgere verso sé stesso gesti e azioni, mascherati da illusoria libertà estrema, che innescano le più varie forme di dipendenza. L’interrogativo si fa ancora più pressante: perché privarsi della propria libertà per scelta, illudendosi di essere così più liberi di “prima”? La risposta, probabilmente è contenuta in quel “prima” perché la ricerca della dipendenza (qualunque essa sia) è una risposta a un bisogno scatenato da un’assenza. Quindi la soluzione “migliore” sembra quella di lanciare alla società segnali di rivincita (ma leggi sconfitta), anomale richieste di attenzioni con pericolose conseguenze scatenate da errate scelte personali che provengono dalla società liquida e distorta in cui viviamo. È un circolo vizioso in cui l’essere umano è contemporaneamente vittima e carnefice.
Riformulando il pensiero: come è possibile che l’essere umano cada così tanto in errore cercando atavicamente uno stato liquido di autonomia, bramando di affrancarsi dalle regole “imposte”, ma alla fine obbligandosi a viverne altre, molto più gravi e dannose?
Queste riflessioni amare sono il presupposto del processo creativo che soggiace al progetto in mostra di Michele Di Donato, dal titolo Brain Damage. Il lavoro in esposizione, così come il libro omonimo, è diviso in quattro “aree di dipendenza” e l’autore cerca di dare una… No, la frase non termina con “risposta” ma con la parola “testimonianza”. Di Donato infatti entra nelle situazioni e le documenta, compie un atto di immersione esperienziale in zone buie del cervello (e dell’animo) umano che decide – volontariamente – di perdere lucidità e lasciarsi andare alla decadenza.
Il suo tragitto negli inferi comincia con la formula del reportage immersivo ma, per esprimere al meglio tutti i gironi danteschi, Di Donato prosegue con un linguaggio espressivo diverso che gli consenta l’interpretazione simbolica di immagini prodotte dalla nostra mente, quando si trova in condizioni di forte alterazione. L’autore quindi non si ferma a una sola grammatica ma forgia i concetti che vuole esprimere servendosi di volta in volta degli strumenti più adeguati.
Quindi, al reportage affianca scene di staged photography appositamente costruite per raccontare concetti astratti che, interiorizzati, diventano immagini mentali riportate sempre più su dalla coscienza per arrivare fino agli occhi, passare alla fotocamera e finalmente arrivare a noi, sotto forma di immagini. Questo processo è molto faticoso e richiede onestà intellettuale e raziocinio fuori dall’ordinario.
Michele ci strattona (scordatevi di essere presi per mano, qui “dentro” si va avanti a spintoni!) per far sapere che esistono mondi paralleli distorti dal danno cerebrale autoinflitto che può essere il farmaco anestetico della ketamina, il malato desiderio di magrezza estrema, fino ad arrivare alla più assurda delle “droghe”: l’aspirazione compulsiva alla dipendenza stessa, qualunque essa sia.
I luoghi in cui ha scattato sono funzionali alla narrazione ricercata: Michele infatti ci racconta d’aver scattato sia in Italia che in Europa, principalmente nelle città di Amsterdam, Rotterdam, Monaco di Baviera e Düsseldorf.
l ritmo dell’editing è serrato, il colore sono acidi (e non a caso), il mosso rasenta la violenza di certa fotografia nord europea tutt’altro che in linea con la bellezza classica italiana: siamo entrati nel “tunnel” di Brain Damage.
Craving, Doppelgänger, Lost in the K-Hole e Rorschach, questi sono i titoli dei quattro “capitoli” del libro e della mostra, un tentativo di “leggere” la contemporaneità e di dare una rappresentazione della società liquida in cui viviamo. Spiega Michele: “In Brain Damage parlo delle conseguenze che il vivere in questo spazio, in questa epoca, in questo nulla rumoroso ha sulla vita degli esseri umani. Ho cercato di analizzare la questione dal punto di vista della fragilità dei legami affettivi causata dalla solitudine che genera insicurezza; un’analisi delle trasformazioni che avvengono nella società in questa fase di modernità liquida”. Le conseguenze di tali metamorfosi dal sapore kafkiano si manifestano in una serie di azioni violente rivolte verso sé stessi, comportamenti che di volta in volta assumono una forma e un aspetto diversi ma che non cambiano la sostanza del loro effetto: l’autodistruzione.
Suggerisco al visitatore di guardare le immagini da vicino e poi da lontano, senza mai farsi distrarre da altro, per percorrere in immersione questo tunnel concettuale pensato per trasportare vorticosamente nelle quattro sezioni del progetto. Questo per entrare e uscire dalle sensazioni – certamente scomode e da non emulare – prodotte dalle varie forme di dipendenza e trasformate in condizioni di eccitamento iperbolico, visioni acide e sanguigne, vertiginose, ma anche melanconiche, diafane e diaboliche.
Per informazioni sull’autore:
Sito web micheledidonato.com
Instagram @michididonato
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